Fa un po’ strano parlare di sport in questo momento, quando stiamo imparando a ripensare il nostro passatempo preferito non più in termini di spettacolo e passione ma nuovamente nella sua natura originaria di gioco. Ma se dalle nostre parti il dibattito puramente sportivo è ormai diventato mero corollario di un discorso più ampio, più importante, volto a contenere la diffusione del virus, al di là dell’oceano le conseguenze dell’epidemia sono ancora marginali e il grande show della Nba continua imperterrito il suo cammino per la gioia degli appassionati. Ciò non ha impedito, comunque, che si iniziasse a parlare di partite giocate a porte chiuse, senza spettatori, vedendo quello che sta succedendo in altri campionati a noi geograficamente più vicini. E il primo giocatore a esporsi e prendere posizione sull’argomento è stato nientepopodimeno che sua maestà Lebron James. Il Re ha dichiarato che lui gioca per la gente, si nutre della passione della gente, e che non prenderebbe nemmeno in considerazione l’idea di scendere in campo senza pubblico. Al di là delle parole perfettamente aderenti al personaggio che James si è costruito negli ultimi anni, un “people’s champ” la cui prima preoccupazione è guadagnare il maggior consenso possibile, il gialloviola dimentica che non spetterebbe a lui né la decisione sull’argomento, né stabilire la gravità o meno del problema, cosa che implicitamente ha fatto. Si rivolga a Jurgen Klopp per delucidazioni. Da appassionati ci si augura comunque che non si debba arrivare a prendere una decisione del genere e che la stagione possa volgere al termine senza incidenti di percorso, anche perché la carne al fuoco è tanta quando siamo entrati nell’ultimo quarto di stagione regolare.
Stagione che comunque finirà senza coach Kenny Atkinson sulla panchina dei Brooklyn Nets. Una notizia quantomeno inaspettata, visto l’ottimo lavoro fatto soprattutto lo scorso anno proponendo un gioco offensivo frizzante e sviluppando i giovani, ponendo così di fatto le basi per creare il supporting cast ideale al duo Irving-Durant in prospettiva 2020/21. Ma sarebbero state proprio le due star la causa della separazione tra Atkinson e i Nets, che comunque sarebbe stata (più o meno) consensuale. Il general manager Sean Marks ha affermato che lui e il coach hanno avuto un dialogo costante nelle ultime settimane, e insieme hanno deciso di prendere strade differenti. In realtà pare che Irving e Durant abbiano avuto tanta voce in capitolo, e che il prossimo anno vorranno essere allenati da un coach con un background e un palmares diverso, nonostante le grandi capacità mostrate da Atkinson. Anche quest’ultimo comunque avrebbe espresso i suoi dubbi sull’allenare le due star, visto che non si sentiva più come la voce più forte all’interno dello spogliatoio. Certo è che ora sarà il pezzo pregiato sul mercato degli allenatori in vista della prossima stagione: tutte le squadre in rebuilding, anche quelle senza un cambio di panchina in programma, lo cercheranno. Riceverà una telefonata sicuramente da Chicago, Cleveland, Atlanta, Minneapolis, Phoenix e New York sponda Knicks. Tra le big potrebbero essere interessate i Rockets in caso di addio di D’Antoni e gli Spurs se Popovich decidesse di smettere, anche se in questo caso è più probabile una soluzione interna. E a Brooklyn che succede? Intanto la panchina è stata assegnata all’assistente allenatore Jacques Vaughn, che con il gm Sean Marks condivide un passato a San Antonio. Dovesse fare bene fino alla fine della stagione e ai playoff, il suo nome verrebbe preso in considerazione anche per la prossima stagione, ma appare come una possibilità remota. I nomi più papabili sono quelli di Tyronn Lue, che ha la benedizione di Kyrie Irving, e di Mark Jackson, per il quale spinge invece Durant. Altre opzioni sono quelle che portano a Tom Thibodeau, Jeff Van Gundy, Dave Joerger e alla coppia Tim Duncan/Becky Hammon, probabilmente la soluzione più affascinante ma anche la più rischiosa.
Spostandoci di circa 8 km dal Barclays Center al Madison Square Garden, la confusione e la sorpresa non sono più elementi straordinari ma connaturali al mondo Knicks, in cui anche i momenti positivi, come la vittoria casalinga ai danni degli Houston Rockets, vengono in qualche modo rovinati da una proprietà che da anni ormai fa più danni della grandine. James Dolan ha infatti avuto un’accesa discussione con Spike Lee, ovvero il tifoso più illustre nonché probabilmente il volto più riconoscibile dell’intera franchigia. La colpa del regista di “He Got Game”? Essere entrato… dall’ingresso sbagliata. Circola un video in cui Lee litiga con un addetto alla sicurezza che gli intima di entrare dall’ingresso VIP e non più da quello riservato ai media e addetti ai lavori che Lee ha utilizzato negli ultimi 28 anni. I Knicks hanno spiegato che tutto si è risolto con una stretta di mano tra il regista e Dolan all’intervallo, ma la realtà è che i rapporti tra i due sono molto tesi viste le critiche che Lee ha portato negli ultimi anni alla proprietà della franchigia. Certo è che certe situazioni andrebbero gestite meglio, anche considerando che il posto in prima fila sempre occupato da Spike non viene via a meno di 300 mila dollari. Ma la comunicazione è un problema cronico di Dolan, che ha gestito male pure il cambio di dirigenza, prima smentendo le voci su Leon Rose, realmente assunto pochi giorni dopo, e poi uscendo con un comunicato asettico per annunciare l’arrivo dell’ex agente. Nonostante il passo falso iniziale, si spera che proprio l’arrivo di Rose possa cambiare le cose all’interno di una franchigia che da troppo tempo non vede la luce. Rose arriva sulla scia dei Bob Myers e Rob Pelinka, procuratori molto quotati che ad un certo punto decidono di passare dall’altra parte della barricata: tra i suoi assistiti troviamo infatti tra gli altri Joel Embiid, Karl-Anthony Towns e Devin Booker. Ma se Myers ha beneficiato dell’apprendistato sotto la guida di Jerry West e Pelinka si avvale della presenza ingombrante di Magic Johnson, Rose dovrà fare tutto da solo in un mondo che conosce solo di riflesso. Ma soprattutto nell’ambiente più difficile possibile: auguri.