Ho sempre odiato Kobe Bryant. Sin da quando, in tenera età, mi sono innamorato del basket Nba, il mio cuore sanguina verde, e il giallo e il viola sono sempre stati la mia nemesi, incarnata visceralmente e inconicamente per 20 anni proprio da Kobe. La sua spensierata e alienante competitività, che spesso sfociava nell’arroganza, mi faceva rabbia: una rabbia che ha toccato il suo culmine durante le Nba Finals del 2010, quando i Lakers sconfissero i Celtics dopo 7 estenuanti partite, e Kobe vinse il titolo di Mvp. L’ho sempre odiato, ma quando ho appreso la notizia della sua morte sono prima rimasto sgomento e poi scoppiato in lacrime, e ho cercato di capire perché. Come era potuto succedere? Kobe è più forte di qualsiasi elicottero. Anzi, non ha proprio bisogno di un elicottero, per un’intera carriera ha volato in grandezza. Quindi, come è possibile?
Se c’è una parola adatta a descrivere Kobe, quella è ‘passione’. E non la sua passione per il gioco, seppur si tratti sicuramente di una parte importante, ma la passione quasi messianica che ha ispirato negli altri. I suoi accoliti erano eterogenei, divisi da età, colori e credi ma uniti nella passione. Michael Jordan ha ispirato timore reverenziale. LeBron James, ammirazione. Ma ciò che ha reso Kobe così unico sono state le violente tempeste di passione emanate dai suoi ammiratori. Nessun altro giocatore nella storia potrà mai eguagliarlo. E oggi, purtroppo, percepiamo la profondità di questa passione per l’ultima volta, tradotta in tristezza. E a rendere insopportabile il dolore, è la morte della secondogenita Gianna, Gigi per tutti, che Kobe stava accompagnando ad una partita di basket nella sua Mamba Academy. La sua vera erede: a chi gli chiedeva se non gli mancasse un figlio maschio, Kobe rispondeva di avere la sua Gigi. Somigliava tanto a Kobe: per la passione, appunto. Per l’autodeterminazione. Per l’amore per il gioco. Per la curiosità. Una simbiosi perfetta. Ed era stata proprio lei a trattenerlo in un mondo da cui comunque voleva in parte distaccarsi per affrontare nuove sfide, come quella della scrittura.
Non ha senso e non voglio stare qui a parlare dei 5 titoli Nba, due volte da Mvp delle Finals, delle 18 convocazioni all’All Star Game, delle 15 presenze negli All Nba Team e delle 12 nei migliori quintetti difensivi, né delle due medaglie d’oro alle Olimpiadi del 2008 e del 2012. Quel Kobe Bryant, ossessivamente competitivo, era già cambiato nell’ultimo anno della sua carriera. Kobe non era perfetto, ma la sua migliore qualità era assicurarsi che chiunque lo conoscesse non fosse indifferente. Potevi amarlo o odiarlo, ma Kobe era impossibile da ignorare. Ha dato al gioco tutto quello che aveva, e aveva imparato lungo il cammino che c’era uno scopo più grande della corsa agli anelli, di essere venerato come il più grande di sempre. Non credo che Kobe abbia mai vissuto una stagione più spensierata come la sua ultima, quando ha ammesso che era tutto finito: la caccia agli anelli, al rispetto, al dominio. In quei momenti, ha avuto il tempo di essere introspettivo, cominciando a capire la presa che aveva sulle nuove generazioni e diventando una sorta di fratello maggiore per chiunque nella Nba, dopo anni di servizio come ambasciatore portabandiera. Una trasformazione sorprendente, quasi antitetica al Kobe che conoscevamo. Il suo lato abrasivo, pomposo o condiscendente si era trasformato in accessibile, affabile e divertente. Kobe, nel bene e nel male, era qualcuno che avrebbe dovuto avere molto più tempo per lasciare il segno. Essere derubato dell’opportunità di vedere dove fosse diretto un Bryant “illuminato”, appassionato e determinato mi fa sentire completamente vuoto. Ho sempre avuto la sensazione che per Kobe la vita avesse in serbo tanto altro. La sua volontà indomita non avrebbe accettato la mediocrità in nessuna fase della sua vita. Sicuramente non ora, con la libertà, la curiosità insaziabile e le risorse per dominare qualunque campo avesse scelto. La vera morte dovrebbe risparmiare coloro che hanno l’ambizione e la spinta per massimizzare tutto ciò che questa vita ha da offrire.
Per noi che abbiamo tra i 30 e i 40 anni, Kobe è stato presente per due terzi delle nostre vite. Una presenza costante, tutte le mattine a guardare i box score per vedere quanti punti avesse segnato, e poteva anche capitare che una volta leggessi 81 e no, ci deve essere un errore. Ma era tutto vero. E’ stato probabilmente il giocatore più discusso e chiacchierato di sempre. Sono state raccontate mille storie sul suo conto, tanto da renderlo una leggenda nel vero senso della parola: l’eroe che diventa sempre più grande ogni volta che si raccontano le sue gesta. Kobe è diventato più grande di Kobe, ma comunque non del suo ego e della fiducia nei suoi mezzi. Questo è uno dei motivi del perché la sua morte, così tragica e inaspettata, ha scioccato il mondo. L’incredulità, del resto, è l’unica maniera di accogliere la notizia che l’uomo con più fiducia in sé stesso che avessimo mai conosciuto ci sia stato strappato così, da un momento all’altro. Mi sono sentito improvvisamente mortale: se succede a Kobe, può succedere anche a me. E questo pensiero mi ha colto alla sprovvista e lasciato basito, e ho pianto lacrime sincere, come se parte del tessuto della realtà mi fosse stato strappato via. In quel momento ho capito che nonostante avessi sempre pensato di odiarlo, in realtà lo amavo. Lo amavo perché in lui vedevo l’esempio di come sarei potuto diventare migliore, più grande di quello che avevo sempre pensato, se solo ci avessi creduto abbastanza. E ho realizzato che il suo esempio non può essere spazzato via da una fine così tragica e improvvisa.