John F. Kennedy era il presidente degli Stati Uniti. L’atterraggio sulla luna, che lo stesso Steph Curry in seguito avrebbe dichiarato scherzando non essere mai avvenuto, era distante ancora 8 anni. E Steve Kerr sarebbe nato solo 4 anni dopo. Per capire la portata dell’impresa di questi Golden State Warriors, capaci di raggiungere per 5 volte consecutive le Nba Finals, bisogna un attimo risalire il guado e tracciare le coordinate storiche dell’ultima (e unica) volta che una squadra aveva compiuto un simile miracolo sportivo: era il 26 marzo 1961, e i Celtics guidati da Bill Russell in campo e Red Auerbach in panchina conquistavano la quinta finale consecutiva battendo 4-1 in finale di Conference i Syracuse Nationals (che due anni dopo sarebbero diventati Philadelphia 76ers).
Quei Boston Celtics erano nel pieno di un’epopea che li avrebbe condotti a 10 finali di fila, conditi da 9 titoli, tra il 1957 e il 1966. Altro basket, è vero. Altra Nba, come negarlo: la Association era composta da sole 8 squadre. Ma è anche vero che ranghi di partenza così ridotti, di contro, volevano dire un talento molto meno diluito della Nba attuale: ogni squadra poteva contare su almeno un paio di futuri Hall of Famer. Per questo motivo l’impresa di quei Boston Celtics è straordinaria, e per altri ma non meno stupefacenti motivi lo è in egual misura quella dei Golden State Warriors. Non a caso, abbiamo dovuto attendere 58 anni!
Il poker dei Warriors arriva dopo lo sweep ai danni dei commoventi Portland Trail Blazers arrivati spompati a questa finale. Ma la differenza di talento è stata implacabile: la squadra di Terry Stotts ha dilapidato un vantaggio di 17 punti in gara 2, di 18 punti in gara 3 e ancora di 17 nell’ultima e ahiloro decisiva gara 4 al Moda Center. Ma l’impressione costante è stata di totale controllo per i campioni Nba in carica: quando c’era da vincere la partita, bastava innestare la terza e via, giù, a vincerla per un ulteriore record, un altro passo verso la storia. E questa sensazione di onnipotenza fa particolare impressione se pensiamo che sia arrivata senza Kevin Durant e DeMarcus Cousins, il primo “solo” un legittimo candidato – insieme ad un altro paio – al titolo di miglior giocatore del globo, il secondo preinfortuni era forse il miglior centro Nba e comunque futuro Hall of Famer. E nel finale di gara 4 è mancato anche Andre Iguodala, che come ogni anno quando arrivano i playoff pigia il tasto on della batteria e si trasforma nel giocatore decisivo sui due lati del campo che ormai conosciamo a menadito.
La squadra di Steve Kerr si è compattata, giocando un basket migliore senza KD, con gli Splash Brothers sugli scudi (Steph Curry è tornato in versione Mvp mentre la quantità di cose utili che fa in quel rettangolo 28×14 Klay Thompson nell’arco di una partita è inenarrabile) e un Draymond Green che paradossalmente si conferma come uno dei giocatori più sottovalutati della Lega. Lo chiamano metronomo, anima difensiva, collante, trash talker, uomo barometro… ma la verità è che in queste finali di Conference l’Orso ballerino si è dimostrato un’arma letale anche a livello offensivo. E se c’erano dubbi su chi vincesse la sfida tra i due migliori backcourt della Lega, con gli Splash Brothers da una parte e Damian Lillard (strapazzato da Curry, ma a sua parziale discolpa è arrivato esausto e ha giocato con una costola incrinata da gara 2 in poi) e CJ McCollum, Green (16.5 punti, 11.8 rimbalzi, 8.8 assist, 2.8 blocchi e 2.3 recuperi nella serie) si è dimostrato un enigma irrisolvibile per la difesa di Portland.
Nel 2015 fu un 4-1 ai danni degli Houston Rockets. Nel 2016 un 4-3 contro gli Oklahoma City Thunder di Kevin Durant che quella stessa estate sarebbe poi approdato nella Baia nella più controversa firma della storia della free agency Nba. Nel 2017 lo sweep ai danni dei San Antonio Spurs del primo anno d.D. (dopo Duncan). L’anno scorso ancora i Rockets, ma con più fatica: la quarta finale arrivò in gara 7 al Toyota Center, non senza rimpianti da parte dei texani che giocarono le ultime due partite senza il loro secondo miglior giocatore, Chris Paul.
E ora la cinquina per entrare nella storia dalla porta principale come solo le grandi squadre della storia del gioco hanno saputo fare. Un ulteriore record per una squadra alla quale non ne servivano altri per entrare nella leggenda. E pensare che durante la regular season in tanti hanno pronosticato un’implosione di uno spogliatoio che vive 9 mesi l’anno con l’ossessione di vincere. Ma ora è tempo di mettersi comodi sul divano a guardare le Eastern Conference Finals, per scoprire se sarà Giannis o Leonard a frapporsi tra i Warriors e il quarto titolo in 5 anni. Chapeau.