Storicamente, quando si parla di sport, esistono due modi diversi di approcciarsi al presente. Da una parte c’è la retorica della nostalgia, quella narrazione per cui niente sarà mai più come i bei tempi andati. Dall’altra c’è il “mai visto prima”, che trova linfa vitale nell’esaltazione del momento, nella sensazione di trovarsi dinanzi a quel tipo di contingenza storica che al di là dell’oceano chiamano “history in the making”. Ci si trova dinanzi a due estremi che in entrambi i casi vanno sempre smorzati e, ancora più importante, contestualizzati. Ma mai come quest’anno, in Nba, si ha la sensazione di stare ad assistere a qualcosa di nuovo ed eccezionale, se parliamo di prestazioni individuali. Trascorso un terzo di stagione regolare, ci sono almeno quattro giocatori che sono legittimi candidati Mvp, ognuno dei quali, finisse oggi l’annata, potrebbe recriminare con diritto il fatto di non essere stato premiato come miglior giocatore della Lega.
Non possiamo non partire dall’Mvp in carica, il greco di Milwaukee, Giannis Antetokounmpo. Basterebbe già il solo fatto che nessun appassionato è più costretto a fare copia-incolla per scrivere il suo nome per capire l’impatto che ‘the Greek Freak’ ha avuto sull’Association. Non dovesse essere sufficiente, scioriniamo le statistiche che sta mettendo insieme: 30.8 punti a partita, 13.1 rimbalzi, 5.4 assist e il 56.4% dal campo. Ok, è ancora presto, ma sarebbe solo il terzo giocatore nella storia della Lega a finire la stagione con una stat line di 30/13/5. Gli altri due? Wilt Chamberlain ed Elgin Baylor. E i Bucks sono la miglior squadra della Lega con un record di 20 vittorie e 3 sconfitte, cavalcando una striscia di 17 affermazioni di fila tra le quali quella prestigiosa contro i Clippers in cui Giannis ha costretto Kawhi Leonard a 17 punti con il 5/14 dal campo.
Passiamo al grande sconfitto della scorsa stagione, James Harden. Il ‘Barba’ è un giocatore polarizzante in un verso o in un altro, nessuno come lui riesce a dividere il pubblico. Per tanti è un giocatore poco pulito tecnicamente, poco rispettoso delle regole del gioco per il modo in cui ha reinterpretato lo step-back (il passo d’arresto andando indietro per creare separazione dal difensore e prendere il tiro), diventato quasi un moonwalk di “Michael-Jacksoniana” memoria, e perdonateci il neologismo ma è difficile rendere meglio l’idea. Altri non apprezzano, eufemismo, l’abitudine in entrata a canestro di allacciarsi col braccio al difensore per guadagnarsi dei viaggi in lunetta che ad una più attenta analisi somigliano molto di più a dei falli in attacco. E’ impossibile però non ammettere che quello che sta facendo a livello realizzativo è qualcosa di unico nella storia, avvicinabile solo dal Michael Jordan pre-titoli: 38.5 (!) punti di media, 6.1 rimbalzi, 7.4 assist con il 43.1% dal campo. Ma soprattutto la sensazione di non essere limitabile e di poter segnare sempre, in qualunque situazione e contro qualunque avversario.
Il terzo nome, pur non avendo giocato ancora nemmeno 100 partite in Nba e a neanche 21 anni compiuti, lo conosciamo tutti benissimo: in pochi potevano avere dubbi sulla grandezza potenziale di Luka Doncic, ma nessuno si immaginava di trovarlo già a questi livelli alla stagione da sophomore. Ne abbiamo ampiamente parlato la settimana scorsa, ma facciamo un breve sunto: quasi tripla doppia di media (30 punti, 9.8 rimbalzi, 9.2 assist) senza mai dare l’impressione di cavalcare l’onda delle statistiche ma, al contrario, essendo sempre in controllo della partita; i Mavericks, che pochi ad inizio anno pronosticavano ai playoff, sono terzi nella terribile Western Conference; last bust not at least, ha appena superato il record di Michael Jordan di partite consecutive con almeno 20 punti, 5 rimbalzi e 5 assist, con una striscia aperta di 20 partite. Serve altro?
A chiudere il quartetto di stelle, un nome a sorpresa: Lebron James. Ammesso e non concesso che mai il nome di Lebron possa essere una sorpresa in qualunque classifica che metta in ordine i migliori giocatori del pianeta, è vero anche che il “Re” ha reso normale lo straordinario e per questo negli ultimi anni si è trovato fuori dalla corsa all’Mvp. Ma quest’anno la musica è cambiata: a quasi 35 anni, il nativo di Akron è in una forma fisica smagliante, sembra tornato quello del 2013, anno in cui per l’appunto vinse il tuo quarto e per ora ultimo titolo di Mvp della regular season con la maglia dei Miami Heat. I 25.9 punti di media, i 6.8 rimbalzi e il 50.1% dal campo ci raccontano poco della sua stagione. Molto più utili a tal proposito sono i 10.8 assist regalati a partita, primo nella Nba e miglior dato della sua carriera. James sta giocando sostanzialmente da playmaker o comunque da portatore di palla primario nella squadra che insieme ai Bucks ha il miglior record della Lega. Non solo assist: dopo la scorsa stagione, in cui fu subissato di critiche proprio per la sua svogliatezza difensiva, mai come quest’anno il 23 gialloviola sembra concentrato sull’obiettivo, e potrebbe tranquillamente essere un candidato al premio di miglior difensore dell’anno insieme peraltro al suo compagno di squadra Anthony Davis. E questo ci fa capire perché in tanti considerano i Lakers la miglior squadra della Lega.
La stagione è ancora lunga e, per essere banali, può succedere di tutto, ma difficilmente il nome del Most Valuable Player 2020 non sarà uno di questi quattro, e in nessun caso si potrà avere qualcosa da obiettare se non la forza degli altri tre.